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I monumenti storici di Grottaglie: la chiesa della Madonna del Carmine
15-07-2024
I monumenti storici di Grottaglie: la chiesa della Madonna del Carmine
La chiesa dedicata alla Beata Vergine del Monte Carmelo, popolarmente conosciuta come Madonna del Carmine, è da secoli uno dei fulcri della fede grottagliese, testimoniata nei secoli dalla imposizione dei nomi come Carmine, Carmelo e Carmela ai neonati.Nella zona in cui un tempo era ubicata una delle porte di accesso alla città sorge un tempio che ospita e protegge opere d'arte e preziose testimonianze di fede.Dalla lapide funeraria della famiglia Cicinelli al mezzo busto in pietra tiburtina che ricorda Antonio Marinaro, passando per il monumentale presepe in pietra policroma realizzato da Stefano da Putignano e le tele che immortalano uomini illustri come Padre Nicola Maria Ricchiuti o scene religiose come la deposizione di Cristo dalla Croce del Cunavi, San Gaetano con Bambino e angeli musicanti del Fenoglio e - ovviamente - il quadro raffigurante la Beata Vergine del Monte Carmelo, ospitata nella cappella che conclude la navata destra.Sull'angusto spiazzo su cui si affacciano tanto la confraternita del Carmine che l'ex convento che dopo la riforma murattiana divenne carcere mandamentale ed oggi è destinato a laboratorio urbano, la facciata realizzata nella prima metà del XVIII° secolo accoglie il fedele con le immagini della Vergine del Carmelo effigiata nel medaglione soprastante l'ingresso centrale ed affiancata dalle statue dei profeti Elia ed Eliseo alloggiate in due nicchie laterali.L'interno della chiesa è diviso in tre navate, segnate dalle modifiche e dai restauri non sempre felici che si sono succeduti nei secoli. A ricordarne l'origine, i documenti che raccontano della donazione agli inizi del '500 da parte del sacerdote Romano de Romano di una piccola casa e di una cappellina che probabilmente già accoglieva il culto mariano ed una lapide commemorativa in marmo, presente nella cappella del presepe, che testimonia della donazione effettuata da Turco Galeone per realizzare la cappella stessa.Da cinque secoli il culto mariano è vivo e palpitante tra la popolazione grottagliese, rinnovato nelle cerimonie religiose, nelle processioni e negli eventi liturgici così come ricorre anche in tradizionali modi di dire, come nel caso del "vento del Carmine", che aiuta i contadini a separare il grano dalla pula dopo le operazioni di mietitura estive.
I monumenti storici di Grottaglie: il Castello episcopio
28-11-2023
I monumenti storici di Grottaglie: il Castello episcopio
Un tempo soggetto prediletto per le cartoline postali illustrate che i turisti spedivano agli amici dal luogo delle loro vacanze, da secoli segno tangibile del potere temporale esercitato dagli arcivescovi di Taranto sul popolo di Grottaglie, il castello episcopio si affaccia sulla gravina di San Giorgio, nella zona sud-orientale del quartiere in cui hanno sede la maggior parte delle storiche botteghe figuline e fu realizzato per volere dell’arcivescovo Giacomo d’Atri, che esercitò il suo mandato pastorale negli anni che vanno dal 1354 al 1381, quando il 15 luglio fu trucidato da mani ignote per motivi, forse passionali o forse politici, ancora oggi rimasti oscuri. Per dotarsi di una residenza all’altezza del suo rango, e – probabilmente – per motivi eminentemente pratici, Giacomo d’Atri fortificò la residenza episcopale trasformandola in un imponente castello, che venne affiancato - a scopo difensivo - da una cinta muraria che delimitava il centro abitato ed era dotata di quattro porte, due delle quali ancora oggi visibili.A differenza di altre costruzioni fortificate, non si tratta di un edificio costruito ex novo - ma quasi certamente – il castello venne realizzato a partire dall’ampliamento di una masseria fortificata, simile a molte altre esistenti in quel periodo nelle campagne pugliesi. Il castello episcopio si presenta oggi come una costruzione maestosa e imponente, con una superfice complessiva di oltre 6.000 metri quadri e un’altezza massima, riferita alla torre maestra, di oltre 28 metri, ma i numerosi lavori di modifica e adattamento in base al variare delle esigenze degli occupanti rendono molto difficile stabilire con certezza la cronologia delle diverse fasi costruttive.Non è quindi possibile fissare una data precisa di costruzione – come invece si può fare con la Chiesa matrice grazie ad una iscrizione posta sulla sua facciata, altro edificio la cui costruzione Grottaglie deve allo stesso arcivescovo Giacomo d’Atri – ma ci si deve limitare ad individuare, sulla base delle testimonianze storiche oggi disponibili (purtroppo carenti e spesso contraddittorie) dei momenti in cui individuare un prima e un dopo. Se da una parte abbiamo uno storico locale come il Pignatelli che indica nella fine del 1200 il periodo in cui Grottaglie venne fortificata, dall’altra abbiamo monsignor Giuseppe Blandamura, che sulla base di testimonianze documentarie indica nel 1388 l’anno di realizzazione della cinta muraria, posticipando quindi la realizzazione della struttura difensiva di quasi due secoli. Il limite opposto è fissato invece da un altro documento, che ci conferma che nel 1406 il castello di Grottaglie era già stato costruito, poiché risultava occupato da Ottino de Caris, detto il Malacarne.Inoltre, un altro documento, riportato dal già citato Blandamura, evidenzia inoltre che in data 5 marzo 1483 il cardinale arcivescovo Giovanni d'Aragona, al fine di poter effettuare le necessarie riparazioni alle fortificazioni di Grottaglie, proibì che una certa quantità di calce fosse trasportata a Taranto per analoghi lavori. Come detto, dallo studio dei rilievi appare abbastanza probabile che una prima cinta fortificata, identificabile con quella che chiude il cortile meridionale, a cui era forse aggiunta una seconda torre di cortina - poi andata distrutta - esistesse già nel 1433. Lo fanno ipotizzare alcune tracce di una porta in uno stile che richiama il gotico, presenti nel muro che divide i due cortili; l’esistenza di tale porta potrebbe anche giustificare la localizzazione della torre maestra e tutto il sistema degli accessi ai livelli superiori della stessa, che doveva servire anche per quella parte del primo piano del fabbricato principale, corrispondente alla zona della sala episcopale. Una prima configurazione del castello all’inizio del 1400 era quindi probabilmente costituita dalla citata cinta muraria, dalla torre maestra interna, dalle sale del primo piano destinate a dimora dell'arcivescovo e da due torri di cortina rispettivamente a sud-est e sud-ovest.Nella seconda metà del secolo, probabilmente verso il 1483 a cui risalgono i lavori commissionati dal cardinale arcivescovo Giovanni d'Aragona, la prima configurazione subì un ampliamento, con la realizzazione del cortile occidentale e di una ulteriore torre di cortina – oggi distrutta – al tempo posta a difesa della porta di accesso al centro abitato, attualmente trasformata in fornice aperto. Rimanendo nel campo delle ipotesi sufficientemente plausibili, possiamo affermare che il 14 febbraio 1580, quando monsignor Lelio Brancaccio consacrò la chiesa madre, anche il castello fosse stato già realizzato nelle sue parti principali, seppure ancora abbastanza limitato nel suo sviluppo. Altri lavori di ampliamento e modifiche ai locali furono eseguiti tra il 1613 ed il 1617 dal cardinale Bonifazio Caetani, che – anche a causa delle diminuite esigenze difensive - accentuò il carattere aristocratico della residenza, edificando altre stanze al piano nobile e - soprattutto - realizzando il grande giardino esterno, che venne dotato di recinzione e ingresso monumentale. E’ in questo periodo che – probabilmente - viene realizzato il portale d’ingresso al castello che ammiriamo ancora oggi. Localizzato sul lato ovest, è composto da due pilastri in bugnato terminanti con dei semicapitelli su cui si imposta un arco a tutto sesto, anch’esso in bugnato. Al piano superiore - il cosiddetto piano nobile - fu realizzato un complesso di ben 11 stanze allineate longitudinalmente, tra le quali spicca un grande salone centrale (la cosiddetta “galleria”). Alle stanze, molto ampie e maestose, corrispondono in facciata altrettante finestre riquadrate da un cordone, coronate da fregi con decorazione a volute; la teoria di finestre al piano elevato ed il portale bugnato della stessa fase che monumentalizza l’ingresso, ridefiniscono la facciata del castello secondo lo stile barocco tipico dei palazzi nobili del XVII secolo. Ancora altri lavori furono commissionati nel 1649 da monsignor Tommaso Caracciolo ed il castello si ingrandisce aumentando la sua ricettività senza alterare l’impianto generale e difensivo del complesso; si procede nel miglioramento degli ambienti esistenti e nella realizzazione di alcune nuove strutture, quali il loggiato interno dell’episcopio, collegato all’atrio da uno scalone oggi non più esistente, che terminava con una loggia voltata a crociera, un tempo affrescata, che si estendeva per l’intera lunghezza dell’edificio, fungendo da diaframma tra il cortile ed il piano nobile.Venne realizzata anche una cappella di piccole dimensioni, evidentemente per uso privato, con un altare in pietra dipinto e pareti e volta decorate con affreschi in stile barocco. Vengono inoltre realizzati alcuni locali di disimpegno per le stanze esistenti e nuovi ambienti destinati a funzioni di servizio ed a foresteria, oltre che alloggi per il personale. Dalle testimonianze documentali risulta che buona parte di questi ambienti si aprivano su una veranda prospiciente il grande cortile e quindi dovevano essere localizzati lungo il corpo di fabbrica che delimitava il giardino ad ovest. Nel 1753 sulle volte delle stanze e della galleria del piano nobile furono fatti eseguire degli affreschi dall’arcivescovo Antonio Sersale, con l’obbiettivo di rendere sempre più marcato l’aspetto aristocratico del palazzo, con l’inserimento di stemmi nobiliari e personaggi illustri.Il successore di Sensale, l’arcivescovo Giuseppe Capocelatro, trasformò la galleria in una cappella coperta da un soffitto a cassettoni con lo stemma della famiglia Morrone, dalla quale egli stesso discendeva. Nel ‘900 vengono poi eseguiti ulteriori lavori, che condurranno alla configurazione attuale: viene riempito ed innalzato il cortile nord-occidentale e realizzata la intercapedine necessaria a dare luce ai locali interni già presenti al piano terra. Si procede inoltre alla costruzione di altri corpi di fabbrica aggiunti al piano terra e al primo piano, nonché ai lavori di adattamento e modifica delle sale interne, per adeguarle alle nuove destinazioni d’uso. In particolare, le vecchie stalle, ubicate nel fabbricato sud-orientale, ospitano oggi le sale del Museo della Ceramica.L’aspetto che oggi ha il castello episcopio è quindi il frutto di secoli di modifiche e adattamenti; d’altronde passare da masseria a fortezza militare, da residenza nobiliare a fabbrica di scarpe – solo per citare alcune delle destinazioni d’uso che lo hanno caratterizzato negli anni – non è certo un gioco da ragazzi. Visto dall’alto, il castello presenta una pianta trapezoidale che si sviluppa in senso NW/SE, con base ed ingresso sul lato occidentale. Il fabbricato principale è sul lato di sud-ovest del perimetro con una cinta muraria sugli altri lati, ci sono poi due cortili e una g
Grottaglie, storia e territorio abolizione della feudalita rivolte e cambiamenti
07-11-2023
Grottaglie, storia e territorio abolizione della feudalita rivolte e cambiamenti
Grottaglie, storia e territorio: l’abolizione della feudalità, rivolte e cambiamenti Come abbiamo anticipato nell’episodio dedicato alla storia della famiglia Cicinelli, l’800 si apre con l’abolizione della feudalità.Un modello sociale durato secoli, che aveva pervaso ogni aspetto della vita sociale, politica ed economica, viene cancellato quasi istantaneamente causando, come è facile immaginare, un vero e proprio choc, tanto negli strati più ricchi che in quelli più umili della popolazione e – purtroppo – diventando a volte un comodo pretesto per alimentare violenze, ruberie e ulteriori ingiustizie. Le leggi che abolirono la feudalità vennero attuate tra il 1806 e il 1808, per iniziativa di Giuseppe Bonaparte, re di Napoli e fratello di Napoleone. Fu lui ad abolire la feudalità nel Regno di Napoli durante il cosiddetto Decennio francese.La legge n. 130 del 2 agosto 1806, al primo articolo recitava: “La feudalità con tutte le sue attribuzioni resta abolita. Tutte le giurisdizioni sinora baronali, ed i proventi qualunque che vi siano stati annessi, sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno inseparabili” e già da queste righe possiamo cogliere l’emergere di un primo problema.Se infatti, questo provvedimento poteva rispondere ad una effettiva esigenza di rinnovamento delle antiche strutture sociopolitiche, dall’altra parte si poneva il problema della ricognizione dei beni demaniali, molti dei quali erano stati usurpati nel corso dei secoli o vedevano un conflitto di attribuzione plurisecolare, come accadeva nel dissidio tra la mensa arcivescovile di Taranto ed i baroni di Grottaglie. Bisognava inoltre considerare che sui beni feudali coesistevano anche gli antichi e consolidati diritti delle popolazioni locali, come nel caso – sempre per citare un esempio a noi vicino – dello sfruttamento della foresta tra Grottaglie e Martina Franca.Ci fu quindi il riconoscimento degli usi civici in base al principio “ubi feuda, ibi demania”, che si affermò soprattutto nel XVIII secolo nel regno di Napoli, dove diversi giuristi operarono per valorizzare e tutelare i diritti delle popolazioni sui feudi, attraverso la costruzione giurisprudenziale dell'uso civico, in modo da controbilanciare la preponderanza (e, spesso, la prepotenza) della classe baronale. La proprietà feudale, infatti, non era una proprietà piena, perché coesisteva con antichi diritti delle popolazioni locali: i più diffusi erano il pascolo e il legnatico, che coprivano le esigenze elementari della popolazione rurale, soprattutto delle classi più umili, che spesso avevano in questi diritti uno dei pochi – se non gli unici – nodi per assicurarsi una dignitosa sopravvivenza. Come in tutte le vicende umane, si giunse infine se non ad una pace definitiva, almeno ad una tregua tra le parti e la vita continuò a scorrere più o meno tranquilla. Monsignor Capecelatro nel 1781 concesse ai Cicinelli – Caracciolo in fitto perpetuo il territorio della foresta, cedendo anche tutti i diritti feudali e si arriva così al 1785, quando la duchessa Giulia Cicinelli-Caracciolo, per le sue precarie condizioni di salute, cede patrimonio e titoli al suo figlio primogenito Giovanni Andrea, che già era amministratore di fatto dei beni di famiglia. Si tratta di un momento cruciale nella storia non solo di Grottaglie ma di tutta Italia, ed è quindi opportuno dedicargli il giusto spazio in un prossimo articolo di approfondimento.
Grottaglie, storia e territorio: i Cicinelli, contrasti e litigi tra baroni e arcivescovi
31-10-2023
Grottaglie, storia e territorio: i Cicinelli, contrasti e litigi tra baroni e arcivescovi
In diverse occasioni abbiamo ricordato quanto i rapporti tra gli Arcivescovi di Taranto ed i baroni di Grottaglie siano stati – nel corso dei secoli – caratterizzati da liti e contrasti.Le motivazioni, manco a dirlo, hanno assai poco a che fare con principi ideali ed il miglior governo della popolazione, essendo piuttosto da ricondurre a motivi economici ed esercizio del potere. Ovviamente, nel lungo arco di tempo che va dall’instaurarsi di questo doppio governo sino alla abolizione del feudalesimo si sono succeduti molti personaggi, alcuni caratterizzati da comportamenti deplorevoli ed altri dall’operato – se non esemplare – almeno adeguato al compito svolto. Abbiamo ricordato, parlando del potere degli arcivescovi, l’operato di alcuni di loro; Giacomo d’Atri, a cui va il merito della edificazione della chiesa madre e del castello; i suoi successori Bonifazio Caetani e Tommaso Caracciolo, che quel castello ingrandirono e fecero più bello; monsignor Brancaccio e monsignor Blandamura, ciascuno dei quali – a suo modo – ci ha trasmesso preziose testimonianze, solo per citarne alcuniAnche dei baroni laici si conserva memoria, quasi sempre negativa; di molti stranieri si deplora il disinteresse che ebbero per un territorio a loro distante e sconosciuto, oggetto di mercimonio e di scambio e vista soprattutto come un insieme di popolazioni da sfruttare e attività lavorative da tassare. Baroni laici ed arcivescovi furono così determinati nell'approfittare di tutte le possibili fonti di prelievo (fiscale e non) che molta della popolazione di Grottaglie preferì emigrare verso terre più benevole, lasciando a chi restava la scelta di subire le angherie o cercare vie di fuga più o meno lecite, come ad esempio abbracciare la via religiosa o darsi al brigantaggio. Di molti dei baroni laici – come il Malacarne – storia ufficiale e memoria popolare raccontano un governo rapace e oppressivo ma una famiglia su molte ha lasciato il segno nella memoria collettiva, ed è a questa che è giusto dedicare qualche riga. La famiglia Cicinelli è quella che forse, più di tutte, è oggi ricordata a Grottaglie, in racconti in cui realtà e leggenda si intrecciano in maniera così stretta da rendere difficile distinguere la vox populi dalla damnatio memoriae. Secoli di presenza meritano, come in effetti hanno avuto, una trattazione attenta e documentata, ma è comunque interessante ripercorrere – almeno per sommi capi – il loro governo nella terra grottagliese, anche per comprendere se le malefatte che gli si attribuiscono hanno un reale fondamento storico. La famiglia Cicinelli era originaria di Napoli, apparteneva alla nobiltà partenopea essendo ascritta al Seggio di Montagna ed ebbe esponenti che spiccarono sia nelle armi che nelle lettere a partire dal XIV° secolo, quando Coriolano Cicinello ebbe l’incarico di Maestro Razionale della Corte Reale Angioina. Le cronache ricordano ancora Camillo, detto il Grande, valorosissimo guerriero, che fu Prefetto dei cavalli della Serenessima Repubblica di Venezia e Giacomo, fratello di Camillo, dottore in legge, che fu Consigliere di re Carlo III di Durazzo; ancora, Attanasio Cicinello, ebbe da re Carlo II d’Angiò il cingolo militare mentre Giovanni Cicinello fu saggio consigliere della regina Giovanna II di Durazzo, e sostituì il Gran Siniscalco Sergianni Caracciolo al governo del Regno, incarico che esercitò con lealtà, giustizia e generosità, tanto da essere stimato e amato dal popolo. Antonio, fedelissimo agli aragonesi e uomo d’arme, fu inviato da re Ferrante I d’Aragona nella città di L'Aquila per sedare la rivolta dei baroni, morendo eroicamente nel compimento della missione affidatagli. Terminiamo qui l’elenco, per mancanza di tempo e di spazio e non certo per carenza di personaggi da citare, e giungiamo alle vicende grottagliesi, quando Giovanni Battista acquista nel 1641 il feudo dì Cursi, piccolo paese del Salento, e dopo dieci anni viene insignito del titolo di principe di Cursi, trasmissibile ai suoi legittimi discendenti. Fu di fatto il primo feudatario che iniziò a risiedere in Grottaglie, dopo aver apportato alcune migliorie al palazzo baronale e documenti e testimonianze storiche ci raccontano di un Principe di Cursi, che si dimostrò valente tanto nelle armi che nelle lettere; si impegnò per contrastare le scorrerie dei pirati turchi che funestavano le coste salentine, fu prodigo nelle arti contribuendo come “generoso mecenate del Santuario di Maria SS.ma dell’Abbondanza e del grandioso altare del convento degli Agostiniani di Cursi”, produsse interessanti opere letterarie come il volume intitolato “Censura del poetar moderno”, che riscosse il vivo apprezzamento degli intellettuali dell’epoca. Insomma, Giovanni Battista aveva meriti numerosi ed acclarati, tanto che re Filippo IV, con suo privilegio del 27 luglio 1665 gli concesse il titolo di duca di Grottaglie per sé, suoi eredi e legittimi discendenti. A questo punto, come si suole dire, la domanda sorge spontanea: come e perché un così valente uomo d’arme e di lettere, giunto a Grottaglie si diede ad opprimere la popolazione con angherie e vessazioni? Fu davvero un così cattivo amministratore o la sua figura fu messa in cattiva luce da chi aveva interesse a screditarne l’operato? La verità probabilmente sta nel mezzo; sicuramente non tutti gli eredi furono all’altezza del capo famiglia, altrettanto certamente il fatto di risiedere stabilmente a Grottaglie, interessandosi in prima persona della amministrazione di terre e masserie, mise in crisi un sistema di clientele e interessi che aveva prosperato sino ad allora. Due poteri come quello baronale laico e quello arcivescovile erano destinati a scontrarsi, e così infatti avvenne; negli anni che seguirono molte furono le cause legali e gli scontri anche violenti tra le due parti, che video il loro momento forse più violento nella rivolta che infiammò Grottaglie nel 1734. Studi e documenti lasciano spazio alla ipotesi che a fomentare il popolo grottagliese aizzandolo alla rivolta contro il barone laico abbiano contribuito gli arcivescovi di Taranto, proseguendo in un una lotta di potere portata avanti senza esclusione di colpi per anni, se è vero come è vero che già nel 1561, il cardinale Marcantonio Colonna, arcivescovo di Taranto, mosse causa contro il barone di Montemesola adducendo che i territori di quel feudo sconfinavano in quello di Grottaglie di cui l'arcivescovo si dichiarava signore e padrone. Lasciamo da parte rivolte violente e scaramucce legali e giungiamo al momento in cui Giovanni Andrea Cicinelli, nato il 2 gennaio 1699 e sposato il 4 gennaio 1723 con Ippolita Piccolomini, muore il 26 settembre 1730, lasciando come erede di tutti i suoi beni feudali, titoli ed altre proprietà, l'unica sua figlia Giulia Maria, nata il 17 settembre 1724 e quindi di soli sei anni di età. A lei si affianca come tutore suo zio paterno Giovanni Battista Cicinelli, che si dimostra uomo astuto e di pochi scrupoli, appropriandosi di fatto dei beni della nipote ed assumendo il titolo di principe di Cursi e duca di Grottaglie. Divenuta maggiorenne e resasi consapevole dei suoi diritti, Giulia Cicinelli si rivolse al re per chiedere di tornare in pieno possesso dei suoi beni, cosa che accadde nel 1744, quando Giovanni Battista Cicinelli restituisce a Giulia Maria tutti i beni che le appartenevano, compresa la successione dei titoli di principe e di duca. Subito dopo, il 17 febbraio 1744, Giulia Maria, divenuta principessa di Cursi e duchessa di Grottaglie, sposa il marchese di Sanfiore Giacomo Caracciolo, figlio di Francesco II duca di Martina e di Eleonora Gaetani; la coppia prende dimora nel palazzo di famiglia a Grottaglie, e Giacomo acquisisce per nomina maritale i titoli ereditati dalla moglie, adottando quindi il doppio cognome Caracciolo Cicinelli. La duchessa Giulia Cicinelli aveva risolto i suoi problemi con il suo zio Giovanni Battista ma non aveva fatto i conti con monsignor Giovanni Rossi, il quale, nominato arcivescovo di Taranto nel 1738 e messo al corrente delle controversie esistenti con i Cicinelli per il feudo di Grottaglie, pensò bene di continuare a rivendicare i diritti vantati. Vi furono ancora altre cause e petizioni, si interessarono tribunali e perfino la casa reale, con il costante risultato di confermare il diritto dei baroni laici al governo ed al possesso delle terre nelle loro disponibilità. Non sappiamo se per innata bontà d’animo o per intelligente calcolo diplomatico, la duchessa Giulia Cicinelli, prima di prendere possesso della sua residenza grottagliese, volle fare in modo di riacquistare anche la benevolenza popolare, e tanto fece che vi riuscì, ristabilendo una pacifica convivenza e buoni rapporti con la cittadinanza. Non si diede invece pace monsignor Giovanni Rossi, che il 6 maggio 1745, definendosi “Utile Signore ovvero barone della Terra delle Grottaglie”, inviò da Napoli un suo editto da pubblicare a Grottaglie in occasione della nascita della figlia della duchessa Giulia Cicinelli, col quale si invitava la popolazione a festeggiare il lieto evento. Quello che ad occhi ingenui poteva sembrare un segno di riappacificazione ad altri più scaltri apparve come un modo per cercare di affermare un potere ed una proprietà più volte negata, poiché l'arcivescovo Rossi nell'edi
Grottaglie, storia e territorio: il ‘700, l’anno di San Ciro e delle rivolte
24-10-2023
Grottaglie, storia e territorio: il ‘700, l’anno di San Ciro e delle rivolte
Siamo al XVIII° secolo e ci avviciniamo all’età contemporanea; Grottaglie continua a vivere anni tormentati e turbolenti, funestati da violenze ed illuminati da lampi di fede che durano ancora oggi. Questo secolo vede riverberare nei suoi primi anni il clima che aveva contraddistinto il precedente e – come vedremo - ancora grande importanza avrà il tormentato rapporto tra gerarchia religiosa e potere baronale che vedrà tra le maggiori vittime una popolazione costretta tra incudine e martello di due poteri divisi su tutto ma uniti nel loro desiderio di supremazia. Nel XVIII° secolo a Grottaglie viene introdotta la devozione verso San Ciro. A portare il santo alessandrino nella città delle ceramiche e delle uve è uno dei suoi figli più illustri, quel San Francesco de Geronimo che già rifulge di santità in quel di Napoli. Nel 1709, al termine di una missione popolare, viene posta la prima pietra della cappella del Rosario dove verrà eretto l’altare al martire egiziano, dando alimento ad un rapporto di fede e devozione che unisce Grottaglie ad altri centri di Italia, e non solo. Fondamentale, in questa opera di fede, è opera dell’arciprete Tommaso, fratello del santo grottagliese, e della congrega del Rosario, che allora ospitava una ampia parte della popolazione e che si assumerà l’onore e l’onere di organizzare la festa in onore di San Ciro. Tanta è la devozione verso il santo di Alessandria che questo – nel 1782 - viene nominato patrono meno principale di Grottaglie, una sorta di ossimoro che riconosceva la preminenza della Madonna di Mutata come patrona principale. Di San Ciro e – soprattutto – dell’opera apostolica di San Francesco de Geronimo parleremo in un’altra occasione, dedicando loro la dovuta attenzione, è ora il momento di soffermarci su un altro evento, meno felice ma altrettanto importante. Come abbiamo accennato prima, anche in questi anni continua il conflitto tra arcivescovi e barone laico, uno scontro a volte sotterraneo e a volte plateale. Nel 1734 la situazione degenera e Grottaglie è scossa da una sorta di rivoluzione che infiamma la popolazione e alimenta violenze e proteste. Sui fatti non c’è identità di vedute: alcuni studiosi – come Grassi e Coco – addebitano l’accensione della miccia al dispotismo del barone, esponente di quella famiglia Cicinelli che tanta poca benevolenza pare raccolse a Grottaglie; altri – come il Vozza – ci vedono la longa manus dell’arcivescovo che soffiava sul fuoco del malcontento per aizzare gli animi e indebolire il potere baronale al fine di guadagnare vantaggio nelle proprie pretese territoriali. La verità forse sta nel mezzo, di certo non la sapremo mai di sicuro perché molti documenti sono andati persi o distrutti. Quel che sappiamo è che – come sempre la storia dimostra – quando i grandi litigano i piccoli ne pagano le spese, e così galera, percosse, esilio e disgrazie toccarono a quel popolo che, illuso, sperava di ottenere con la forza ciò che la legge gli negava. Narrano le cronache che ben duecento famiglie dovettero lasciare Grottaglie e non vi fecero più ritorno, colpite dalla condanna per le violenze che scossero la città. Se ricordiamo che nel secolo precedente si contavano solo 600 nuclei familiari, possiamo ben immaginare quanto questo incise sulla economia cittadina. A segnare le cronache grottagliesi è il governo del barone laico, che in quegli anni è espresso dalla famiglia napoletana dei Cicinelli. Anche su di loro il giudizio degli storici è tutt’altro che unanime e C’è chi ne deplora senza appello l’operato spietato e insensibile ai bisogni della popolazione e chi vede in questa condanna l’effetto di maldicenze alimentate ad arte da quegli arcivescovi sempre decisi a conquistare spazi di potere. Lungi da noi volerci infilare in questa diatriba, ci pare però interessante ricordare una vicenda che ci ricorda come e quanto certe questioni di ripetano nei secoli, a testimoniare della perenne esistenza delle miserie umane. Nel 1730 muore Giovanni Andrea Cicinelli, lasciando erede sua figlia Giulia Maria, di soli sei anni di età. Vista la minore età della bimba, viene nominato tutore il prozio Giovanni Battista Cicinelli che, come purtroppo spesso avviene, sfrutta la sua posizione impossessandosi di fatto dei beni della legittima erede.Comincia da questo momento una serie di vicende che ricordano una soap opera o un romanzo d’appendice, con liti giudiziarie, corruzione di pubblici ufficiali, spergiuri e false testimonianze – ben raccontati da Giuseppe Vozza nel suo dettagliato “Feudo e feudatari di Grottaglie”; si giunge al 1774 quando il tutore prozio rinuncia al feudo per evitare conseguenze peggiori, la legittima erede Giulia torna in possesso dei suoi beni e si sposa con Giacomo Caracciolo dei duchi di Martina Franca, marchese di Sanfiore, unendo due famiglie in un legame che resterà sino alla abolizione della feudalità.Si tratta di un momento cruciale nella storia non solo di Grottaglie ma di tutta Italia, ed è quindi opportuno dedicargli il giusto spazio in un prossimo articolo di approfondimento.
Grottaglie, storia e territorio: 17esimo secolo, la dominazione spagnola, tra luci e ombre
17-10-2023
Grottaglie, storia e territorio: 17esimo secolo, la dominazione spagnola, tra luci e ombre
Il XVII° secolo è per Grottaglie un secolo di luci ed ombre, destino condiviso con gran parte del Meridione d’Italia, funestato dalle dominazioni straniere. Angherie e violenze erano all’ordine del giorno, ed alle prepotenze di soldati stranieri e signorotti locali si aggiungevano tasse e balzelli, che impoverivano ulteriormente una popolazione sempre più disperata. Facile immaginare che una simile condizione fosse terreno fertile per accendere gli animi più intolleranti e portare alla esasperazione anche la persona più mite, causando a ribellioni ed atti inconsulti. Nel 1647 anche a Grottaglie scoppiò una piccola rivoluzione, contro queste insopportabili condizioni, ma la furia popolare fu placata – quasi miracolosamente – da suor Rosana Battista, che si affacciò da una finestra del chiostro delle clarisse brandendo un crocifisso per invitare gli esagitati popolani ad abbandonare la violenza ed a ristabilire la pace e la concordia. Un invito accolto subito e da tutti, riportando la pace in città.Vi furono in questo periodo molti episodi di sopraffazione; piccole e più gravi angherie che – in una sorta di stillicidio – mettevano a dura prova la pazienza e la resistenza di una popolazione sempre più allo stremo. Tra i diversi signorotti che vessarono i grottagliesi, vi furono i Cicinelli, esponenti di un casato che diverrà tristemente noto ed ancora ricordato a Grottaglie per il suo arrogante governo della giustizia e della amministrazione. Quasi a compensare tanta violenza, il Seicento fu anche un secolo in cui a Grottaglie si accesero intelletti geniali che non ebbero pari: Giuseppe e Domenico Battista; Francesco Antonio Caraglio; Antonio D’Alessandro, conosciuto come Serafino delle Grottaglie; Antonio Marinaro, Giambattista Coccioli e Giacomo Pignatelli, solo per citarne alcuni. Di loro si ricorda l’opera e l’ingegno, che in molti casi brillarono ben oltre i confini della terra natia ed ancora oggi sono lustro ed orgoglio dei concittadini che hanno la curiosità di scoprire la vita e le opere di coloro a cui sono intitolate alcune vie del centro storico.Chiudiamo questo articolo, non senza ricordare il grottagliese che forse più di tutti ha illuminato con la sua vita e le sue opere la città delle ceramiche e delle uve; quel San Francesco de Geronimo che – come vedremo più avanti – ebbe tra i tanti meriti, quello di portare a Grottaglie la devozione nei confronti di San Ciro di Alessandria.
Grottaglie nella storia, il conflitto con Martina Franca e la Madonna di Mutata
10-10-2023
Grottaglie nella storia, il conflitto con Martina Franca e la Madonna di Mutata
Grottaglie e Martina Franca vivono da secoli in una sorta di confronto a distanza, che a volte è sfociato in aperto conflitto, altre volte in caustica malignità, altre volte ancora in paragoni tra il rispettivo status sociale, culturale ed economico non sempre obbiettivi e privi di secondi fini. Non è questo il luogo per sviscerare una questione che ha radici così profonde, ma può però essere interessante analizzare alcuni dei motivi che stanno alla base di questa acrimonia. In un episodio precedente del nostro podcast dedicato alla storia di Grottaglie, abbiamo accennato alla presenza di una vera e propria foresta, composta da alberi d’alto fusto e vegetazione selvatica in gran parte esistente ancora oggi, situata in una zona al confine tra Grottaglie, Martina Franca ed Ostuni, denominata “Mutata”.La maggior parte dei grottagliesi potrà raccontare con orgoglio il motivo del nome di quella zona e il perché il santuario ivi esistente appartenga alla diocesi grottagliese. Prima di raccontare anche noi, sia pure a grandi linee, questa storia a beneficio dei pochi che non la conoscano, occorre ricordare – ad onor di cronaca – l’ipotesi che vuole il toponimo “Mutata” originato dalla corruzione di “Matuta”, il nome di una divinità paleoromana che proteggeva quelle che oggi chiameremmo “madri surrogate”, ovvero quelle donne, a volte parenti delle madri naturali altre volte senza nessun rapporto con queste, che si prendevano cura dei neonati quando la madre naturale non poteva farlo. A suggerire tale ipotesi, non solo la similitudine dei due termini, ma anche la statuetta in pietra di epoca romanica della Vergine con Bambino, un tempo ospitata nel santuario ed oggi custodita nella Chiesa Madre di Grottaglie, che rievocherebbe gli ex-voto un tempo offerti a tale divinità, in un luogo quindi sacro sin da prima dell’avvento del cristianesimo ed evidentemente legato alla valenza simbolica della foresta, peraltro richiamato anche nella denominazione di Santa Maria in Silvis, con cui era conosciuto il santuario stesso. Altre ipotesi, più prosaiche e quindi forse per questo, anche in omaggio al “rasoio di Occam”, più probabili, suggeriscono invece che il termine “Mutata” sia da riferirsi all’atto della “mutazione”, ovvero al cambio dei cavalli dei messi o dei messaggeri, che veniva effettuato nella masseria adiacente al santuario dai viaggiatori lungo la vicina via Appia. Tornando alla leggenda, si racconta che nella chiesetta, peraltro già esistente almeno fin dal X° secolo, fosse presente un affresco raffigurante la Madonna ed orientato a Sud, e quindi verso Martina, caratteristica che portava i fedeli martinesi a rivendicare i loro diritti su detto luogo di culto.Pare però che la loro dedizione non fosse esemplare e che tutto il santuario versasse in condizioni fatiscenti e così nel 1359 avvenne un fatto straordinario: l’affresco guardava a Nord, verso Grottaglie, e per effetto di tale eccezionale cambio di prospettiva, venne quindi chiamata Madonna di Mutata. Ciascuno è libero di credere se il fatto sia realmente avvenuto e quanto vi sia di intervento umano o miracolo divino in questo, fatto sta che tutto ciò rese ovviamente felici ed orgogliosi i grottagliesi e molto meno contenti i fedeli di Martina Franca. Se il dissidio tra la diocesi di Grottaglie e quello di Martina Franca si fosse deciso solo per atto soprannaturale, nessuno dovrebbe dolersene; dura lex sed lex, ancor più se la decisione viene da così in alto. Come in tutte le cose umane però, i motivi sono molti di più, e tutti ben più banalmente pratici che una gerarchia devozionale. A raccontarli sono Rosario Quaranta e Silvano Trevisani nel loro libro “Grottaglie – vicende, arte, attività della città della Ceramica”, e ne elencano diversi, tra cui la maggior antichità della città di Grottaglie, del suo collegio e dell’erezione dei canonici e perché a Grottaglie sottostavano i due casali di Civitella e Monteiasi. Non fu l’unico vantaggio vantato dalla chiesa grottagliese, ve ne furono altri, tra i quali l’esenzione dalle sedicesime papali e la composizione a suo vantaggio di una lite con gli artigiani che avevano bottega sulla piazza che ospitava la chiesa matrice e che – col rumore delle loro attività – disturbavano le funzioni religiose. Insomma, anche nelle faccende divine, l’umano ci mette il suo zampino, come ancora vedremo nelle prossime puntate del nostro podcast.
Grottaglie, l’Età moderna, tra rivolte e ingiustizie
03-10-2023
Grottaglie, l’Età moderna, tra rivolte e ingiustizie
Il tempo della Storia corre veloce e inarrestabile, ed in questo episodio ci porta all’età Moderna, un periodo di tempo caratterizzato – per la popolazione di Grottaglie – da violenze ed ingiustizie. Si tratta di un periodo che comprende i secoli XVI° e XVII°, di importanza cruciale per la storia e lo sviluppo sociale, economico, culturale ed artistico di Grottaglie, caratterizzato da momenti salienti, ben raccontati da Rosario Quaranta e Silvano Trevisani nel loro libro “Grottaglie – vicende, arte, attività della città della Ceramica”. A caratterizzare molte di queste vicende è la particolarità della baronia esercitata dall’arcivescovo di Taranto su Grottaglie, una situazione che vedeva il prelato esercitare non solo la sua missione religiosa ma anche la giurisdizione civile, scontrandosi però non di rado con il barone laico, che invece esercitava la giurisdizione criminale. Aldilà della cronaca spicciola e dei singoli episodi, quello che si può constatare dai fatti storici è che la proprietà del feudo di Grottaglie passa di mano in mano tra principi, re, condottieri e nobili, spesso utilizzata come contropartita per operazioni diplomatiche più o meno spericolate, per suggellare alleanze, siglare patti diplomatici o placare appetiti economici. A rimarcare quanto sopra, la constatazione che il prezzo pagato, in denaro o come contropartita, cresce costantemente nel tempo; un ingenuo ottimista penserebbe ad un corrispondente aumento della floridità economica della popolazione ed una maggior rendita delle sue terre, mentre un obbiettivo realista vede in questo solo l’aumento degli appetiti del signorotto di turno ed una conseguente maggiore predazione dei beni del territorio, per rifarsi di quanto sborsato. Ad aumentare la distanza tra governanti e governati la constatazione che nessuno di coloro che assunsero la proprietà feudale di Grottaglie risiedette stabilmente in città; lo fecero solo i Cicinelli a partire dalla seconda metà del Seicento, e la storia racconta dei nefasti effetti di questo dominio. Gli amanti dei modi di dire non avrebbero difficolta a definire la situazione della popolazione di Grottaglie al pari dello sventurato che capiti tra l’incudine ed il martello. La presenza di signorotti stranieri- napoletani, genovesi, fiorentini – avidi ed esosi, fu così opprimente che fomentò violenze e rivolte, ma ad aggravare il tutto si aggiungevano le pretese degli arcivescovi, che pretendevano una buona parte (la decima prima, la ventesima poi) di quanto veniva prodotto a Grottaglie.Non bastasse questo, la Chiesa possedeva ed amministrava anche numerosi terreni e fondi agricoli, fatto che scontentava non poco i grottagliesi che più volte ne rivendicarono il possesso con le buone e – più spesso – con le cattive maniere. Ricordiamo tra le tante la ripetuta occupazione del bosco nella zona della chiesa dedicata alla Madonna di Mutata, che nel 1674 causò la scomunica dei colpevoli e la successiva richiesta di perdono, espressa anche con la commissione della monumentale tela della Annunciazione, oggi nella chiesa madre di Grottaglie. Doppiamente vessata da un potere laico che esercitava la giurisdizione criminale e da un potere religioso che altrettanto amministrava la giurisdizione civile, la popolazione di Grottaglie era sempre più schiacciata e impoverita da tasse e imposte sempre più esose, rese ancora più pesanti dal fatto che nobili e clero erano esentati dal pagamento ma da queste traevano ricchezza e sostentamento. A sempre maggiori ingiustizie fecero eco sempre più evidenti privilegi, con il risultato di impoverire e irritare la popolazione, ma di quello che avvenne in quegli anni tumultuosi parleremo in un prossimo appuntamento.
Grottaglie, storia e territorio: il ‘700, l’anno di San Ciro e delle rivolte
01-10-2023
Grottaglie, storia e territorio: il ‘700, l’anno di San Ciro e delle rivolte
Siamo al XVIII° secolo e ci avviciniamo all’età contemporanea; Grottaglie continua a vivere anni tormentati e turbolenti, funestati da violenze ed illuminati da lampi di fede che durano ancora oggi. Questo secolo vede riverberare nei suoi primi anni il clima che aveva contraddistinto il precedente e – come vedremo - ancora grande importanza avrà il tormentato rapporto tra gerarchia religiosa e potere baronale che vedrà tra le maggiori vittime una popolazione costretta tra incudine e martello di due poteri divisi su tutto ma uniti nel loro desiderio di supremazia.Nel XVIII° secolo a Grottaglie viene introdotta la devozione verso San Ciro. A portare il santo alessandrino nella città delle ceramiche e delle uve è uno dei suoi figli più illustri, quel San Francesco de Geronimo che già rifulge di santità in quel di Napoli.Nel 1709, al termine di una missione popolare, viene posta la prima pietra della cappella del Rosario dove verrà eretto l’altare al martire egiziano, dando alimento ad un rapporto di fede e devozione che unisce Grottaglie ad altri centri di Italia, e non solo. Fondamentale, in questa opera di fede, è opera dell’arciprete Tommaso, fratello del santo grottagliese, e della congrega del Rosario, che allora ospitava una ampia parte della popolazione e che si assumerà l’onore e l’onere di organizzare la festa in onore di San Ciro.Tanta è la devozione verso il santo di Alessandria che questo – nel 1782 - viene nominato patrono meno principale di Grottaglie, una sorta di ossimoro che riconosceva la preminenza della Madonna di Mutata come patrona principale.Di San Ciro e – soprattutto – dell’opera apostolica di San Francesco de Geronimo parleremo in un’altra occasione, dedicando loro la dovuta attenzione, è ora il momento di soffermarci su un altro evento, meno felice ma altrettanto importante. Come abbiamo accennato prima, anche in questi anni continua il conflitto tra arcivescovi e barone laico, uno scontro a volte sotterraneo e a volte plateale. Nel 1734 la situazione degenera e Grottaglie è scossa da una sorta di rivoluzione che infiamma la popolazione e alimenta violenze e proteste. Sui fatti non c’è identità di vedute: alcuni studiosi – come Grassi e Coco – addebitano l’accensione della miccia al dispotismo del barone, esponente di quella famiglia Cicinelli che tanta poca benevolenza pare raccolse a Grottaglie; altri – come il Vozza – ci vedono la longa manus dell’arcivescovo che soffiava sul fuoco del malcontento per aizzare gli animi e indebolire il potere baronale al fine di guadagnare vantaggio nelle proprie pretese territoriali.La verità forse sta nel mezzo, di certo non la sapremo mai di sicuro perché molti documenti sono andati persi o distrutti. Quel che sappiamo è che – come sempre la storia dimostra – quando i grandi litigano i piccoli ne pagano le spese, e così galera, percosse, esilio e disgrazie toccarono a quel popolo che, illuso, sperava di ottenere con la forza ciò che la legge gli negava. Narrano le cronache che ben duecento famiglie dovettero lasciare Grottaglie e non vi fecero più ritorno, colpite dalla condanna per le violenze che scossero la città.Se ricordiamo che nel secolo precedente si contavano solo 600 nuclei familiari, possiamo ben immaginare quanto questo incise sulla economia cittadina. A segnare le cronache grottagliesi è il governo del barone laico, che in quegli anni è espresso dalla famiglia napoletana dei Cicinelli. Anche su di loro il giudizio degli storici è tutt’altro che unanime e C’è chi ne deplora senza appello l’operato spietato e insensibile ai bisogni della popolazione e chi vede in questa condanna l’effetto di maldicenze alimentate ad arte da quegli arcivescovi sempre decisi a conquistare spazi di potere. Lungi da noi volerci infilare in questa diatriba, ci pare però interessante ricordare una vicenda che ci ricorda come e quanto certe questioni di ripetano nei secoli, a testimoniare della perenne esistenza delle miserie umane.Nel 1730 muore Giovanni Andrea Cicinelli, lasciando erede sua figlia Giulia Maria, di soli sei anni di età. Vista la minore età della bimba, viene nominato tutore il prozio Giovanni Battista Cicinelli che, come purtroppo spesso avviene, sfrutta la sua posizione impossessandosi di fatto dei beni della legittima erede. Comincia da questo momento una serie di vicende che ricordano una soap opera o un romanzo d’appendice, con liti giudiziarie, corruzione di pubblici ufficiali, spergiuri e false testimonianze – ben raccontati da Giuseppe Vozza nel suo dettagliato “Feudo e feudatari di Grottaglie”; si giunge al 1774 quando il tutore prozio rinuncia al feudo per evitare conseguenze peggiori, la legittima erede Giulia torna in possesso dei suoi beni e si sposa con Giacomo Caracciolo dei duchi di Martina Franca, marchese di Sanfiore, unendo due famiglie in un legame che resterà sino alla abolizione della feudalità.Si tratta di un momento cruciale nella storia non solo di Grottaglie ma di tutta Italia, ed è quindi opportuno dedicargli il giusto spazio in un prossimo articolo di approfondimento.
Grottaglie, la questione della potestà feudale
26-09-2023
Grottaglie, la questione della potestà feudale
Abbiamo cominciato a trattare in un’altra occasione la questione della baronia arcivescovile su Grottaglie. Si tratta di una storia lunga secoli e costellata di episodi tanto luminosi quanto oscuri, come sempre accade nella storia umana. A partire dalla fine del XII° secolo al governo religioso degli arcivescovi di Taranto si affiancò anche il potere derivante dalla giurisdizione civile e criminale, tanto da consentire al capo della provincia ecclesiastica tarantina di godere dei diritti feudali, fregiandosi del titolo di barone di Grottaglie. Si tratterà – come abbiamo detto - di un potere esercitato per secoli dagli arcivescovi-baroni che segnarono, nel bene e nel male, la storia civile, religiosa, politica, sociale ed economica di Grottaglie, come raccontano Rosario Quaranta e Silvano Trevisani nel loro libro “Grottaglie – vicende, arte, attività della città della Ceramica” La storia della curia arcivescovile tarantina è lunga diversi secoli, e risale agli albori del cristianesimo. La cosiddetta “Tradizione petrina” racconta infatti che intorno al 44 d.C. l’apostolo Pietro, proveniente dalla Palestina e diretto a Roma, abbia fatto naufragio nei pressi del tratto di costa oggi conosciuto come San Pietro in Bevagna. Qui avrebbe incontrato Fellone, uno schiavo responsabile della conduzione di una fattoria, guarendolo dalla lebbra e convertendolo al cristianesimo. Qui avrebbe poi celebrato la messa, probabilmente sacralizzando un antico luogo di culto pagano, per spostarsi poi alla volta di Taranto. Nel suo viaggio, San Pietro avrebbe gettato le basi per le prime comunità cristiane, consacrandoAmasiano come primo vescovo di Taranto, ma si tratta di notizie in cui il confine tra storia e leggenda appare evidentemente assai labile. Le prime notizie certe le abbiamo a partire dalla fine del V° secolo, quando, in una lettera di papa Gelasio I° - databile tra il 492 e il 496 - il pontefice annuncia alla comunità cristiana di Taranto l'invio del nuovo vescovo Pietro, consacrato a Roma. Inoltre, grazie all'epistolario di Gregorio Magno, sono noti altri due vescovi tarantini tra VI° e VII° secolo: Andrea (593), accusato a Roma di concubinaggio e di aver causato la morte di una donna; e Onorio, che nel 603 fece costruire un battistero presso la ecclesia sanctae Mariae. Alcuni autori fanno risalire l’inizio del potere baronale su Grottaglie da parte degli arcivescovi tarantini al 1292; quando gli amministratori della mensa arcivescovile – termine che indica l'insieme dei beni a disposizione di una diocesi cattolica per garantire una rendita sufficiente al mantenimento del vescovo, della sua residenza e della curia diocesana – cominciarono a godere dei diritti feudali e dell’appellativo di baroni di Grottaglie, in virtù delle donazioni e dei privilegi ricevuti nei secoli passati. Come già detto, non pochi sono i dubbi sulla legittimità dei titoli ricevuti e sulla autenticità dei documenti portati a sostegno di tali diritti; probabilmente non si giungerà mai ad una verità storicamente inconfutabile e non è certo questa la sede per discuterne.Quello che possiamo dire è che se molte furono le zone d’ombra, non mancarono amministratori illuminati e benevolenti: l’arcivescovo Angelo, dell’ Ordo Fratrum Sancti Augustini, che ottenne dalla imperatrice Costanza di riedificare Salete, i cui abitanti poi, insieme a quelli di altri villaggi, vennero ad unirsi a quelli di Casalgrande nel 1297 a seguito della petizione dell’arcivescovo Enrico Cerasolo II°, parente e omonimo del suo predecessore. Si ricordano anche i buoni uffici dell’arcivescovo Berardo, che nei primi anni del 1200 ottenne grazie e favori da Federico II° di Svevia, e altrettanto fece, all’incirca un secolo dopo, Frate Gregorio da Capua O.P. che nel 1304 fece disporre a Carlo II° che i suoi ufficiali militari e giudiziari non molestassero gli abitanti di Grottaglie. Confronti e scontri Come è facile immaginare, non sempre gli arcivescovi incontrarono i favori dei regnanti, e non poche furono le vicende che li videro contrapposti. A seguito dell’assassinio dell’arcivescovo Giacomo d’Atri,la baronia ecclesiastica viene abolita da Carlo III° Durazzo e nello stesso 1381 viene passata a Perrino de Confaloneriis, i cui eredi, sedici anni dopo, la venderanno al capitano di ventura Ottino De Caris, tristemente noto come il Malacarne. Il potere torna agli arcivescovi grazie all’intervento armato del Principe di Taranto, Giovanni Antonio Orsini, che terrà per sé la giurisdizione criminale e darà il via a uno sdoppiamento dei poteri civile e giudiziario che durerà sino al XVII° secolo, causando oppressione e malcontento nella popolazione. Arriviamo così, con non poche traversie, all’età moderna, di cui parleremo in una prossima occasione.Esercitarono la loro azione su Grottaglie, alcuni – come Bernardo o Gregorio – interposero i loro buoni uffici per alleviare i disagi della popolazione, altri furono assai meno magnanimi e altri ancora – come Giacomo d’Atri – eternarono la loro memoria con opere che ancora oggi sfidano i secoli. Ma di questo, e tanto altro, parleremo in un prossimo appuntamento!
Grottaglie, Giacomo d’Atri, l’arcivescovo barone trucidato per gelosia
19-09-2023
Grottaglie, Giacomo d’Atri, l’arcivescovo barone trucidato per gelosia
Nelle tormentate vicende storiche che hanno puntellato l’età medievale di Grottaglie, spicca tra tante la figura dell’arcivescovo Giacomo d’Atri, di cui si ricorda non solo l’opera pastorale ma anche – se non soprattutto – il merito della costruzione di due monumenti come il Castello e la Collegiata, che ancora oggi sono tra quelli che maggiormente caratterizzano il territorio grottagliese. Decisioni politiche e vicende storiche hanno per secoli intrecciato la storia di Grottaglie con la guida religiosa (e non solo…) degli arcivescovi della Curia tarantina, che trovarono nella cittadina un comodo albergo contro le temperature bollenti – non solo in senso meteorologico – del capoluogo ionico. L’arcivescovo Giacomo, nativo di Atri, guidò la curia tarantina negli anni che vanno dal 1354 al 1381.Furono anni difficili per le vicende storiche che segnarono il territorio e lo furono altrettanto per il presule che – amareggiato dai dissapori che lo vedevano in contrasto con il Capitolo della cattedrale di Taranto - si concedette lunghi soggiorni in Grottaglie, in una residenza che la Curia tarantina aveva costruito per offrire alla propria guida un luogo di riposo e vacanza, stabilito in un territorio dal clima più ospitale di quello caldo e umido di Taranto. Ad aumentare crucci e pericoli, e forse – come vedremo – a segnare la sua tragica fine, Giacomo d’Atri, negli anni tumultuosi del suo governo episcopale, si era mantenuto fedele al giuramento di obbedienza nei confronti del papa Urbano VI° ed era quindi diventato inviso ad una parte della popolazione che era invece a favore della regina Giovanna d’Angiò e dell’antipapa Clemente VII° da lei riconosciuto, con una decisione che contribuì allo scisma d’Occidente. Sia per dotarsi di una residenza all’altezza del suo rango, sia – probabilmente – per motivi eminentemente pratici, Giacomo d’Atri fortificò la residenza episcopale trasformandola in un imponente castello, che venne affiancato - a scopo difensivo - da una cinta muraria che delimitava il centro abitato ed era dotata di quattro porte, due delle quali ancora oggi visibili. Il castello si affaccia sulla gravina di San Giorgio, nella zona che oggi ospita il quartiere in cui hanno sede la maggior parte delle storiche botteghe figuline di Grottaglie e doveva essere in origine una sorta di masseria fortificata, al pari di molte altre della Puglia del XIII° secolo, ma numerosi e successivi ampliamenti e modifiche rendono di fatto impossibile stabilire con certezza come e quando si siano succedute le varie fasi costruttive, che lo hanno portato ad avere una estensione di circa 6150 metri quadri ed una altezza massima, nella torre maestra, di oltre 28 metri.Testimonianze e documenti sono carenti e non di rado contraddittori; uno storico locale come il Pignatelli afferma che Grottaglie fu fortificata verso la fine del 1200 mentre il Blandamura le posticipa di quasi secoli e riporta un documento che indica nel 1388 l’anno di realizzazione della cinta muraria.D’altro canto, da un altro documento si sa che nel 1406 il castello di Grottaglie era già stato costruito poiché risulta occupato da Ottino Malacarne de Cayra di Pavia. Un altro documento, riportato dal già citato Blandamura, evidenzia inoltre che in data 5 marzo 1483 il cardinale arcivescovo Giovanni d'Aragona, al fine di poter effettuare le necessarie riparazioni alle fortificazioni di Grottaglie, proibì che una certa quantità di calce fosse trasportata a Taranto per analoghi lavori. Altra opera che dobbiamo a Giacomo d’Atri è la Chiesa matrice, conosciuta anche come insigne Collegiata intitolata a Maria SS. Annunziata, che fu consacrata il 14 febbraio 1580 da mons. Lelio Brancaccio. Come per il castello, anche questo edificio ha subito nel tempo notevoli adattamenti, anche se esternamente si presenta ancora nella forma originaria, risalente al 1372, come recita l’iscrizione posta sulla facciata che ne eterna l’autore – il Maestro Domenico de Martina - e il committente, ovvero Giacomo, arcivescovo di Taranto. Ripensando alla tragica fine di Giacomo d’Atri potrebbe sorgere più di un’amara considerazione; alla luce delle opere che fece costruire e della importanza che attribuì a Grottaglie ci si potrebbero aspettare lodi e benemerenze, una statua che ne eterni il ricordo o quantomeno una via a lui dedicata nel centro cittadino.Nulla di tutto ciò; forse per la debolezza delle passioni umane, forse perché le sue idee entrarono in contrasto una volta di più con quelle di avversari determinati a far tacere la sua voce per sempre, Giacomo d’Atri fu trucidato la notte del 15 luglio 1381. Sul colpevole del delitto e sulle modalità dell’assassinio vi sono due versioni discordanti, che poco confermano e molto suggeriscono di quei tempi. Piero Massafra afferma che il delitto aveva motivazioni politiche; esponenti rimasti ignoti della fazione cittadina favorevole alla Regina Giovanna d’Angiò e quindi avversa alla curia arcivescovile armarono la mano di alcuni sicari che trucidarono il prelato usando dei forconi.Il Caraglio racconta invece che a causare la morte dell’arcivescovo fu una passione carnale, la stessa che portò al delitto un altro religioso, quel Ciro Annicchiarico che divenne poi brigante con il nome di “Papa Ciro”. Ironia della sorte, anche qui la mano assassina è quella di un Annicchiarico, un tale Biagio Annicchiarico, che massacrò il prelato usando una zappa per averlo sorpreso di notte in intimo colloquio con la moglie.Se questa sia la verità o una diceria propalata da una “macchina del fango” ante litteram non lo sapremo mai; curiosità desta anche il soprannome dell’assassino spinto dall’onore ferito, nominato “lu stuerto” non sappiamo se per una acclarata zoppia fisica o per un animo torto che lombrosianamente lo predisponeva al delitto. Quel che sappiamo per certo è che i grottagliesi, per espiare l’onta di un tale nefando delitto, vennero condannati dal Papa a celebrare per diversi anni, nei giorni dell’Avvento, una messa in suffragio dell’illustre vittima.
Grottaglie e la presenza degli Arcivescovi di Taranto
12-09-2023
Grottaglie e la presenza degli Arcivescovi di Taranto
Nel trattare delle vicende che caratterizzarono l’età medievale di Grottaglie, abbiamo accennato alle vicissitudini che derivarono dalla singolare condizione che vedeva gli abitanti dell’allora Casalgrande legati alla mensa arcivescovile tarantina in virtù di diritti concessi e privilegi acquisiti.Tra i documenti che attestano questo rapporto, vi sono le vendite, le alienazioni e le donazioni dei casali che costituivano Grottaglie, effettuate in tempi e modi diversi, dal principe Roberto il Guiscardo, da suo figlio Boemondo I° d'Altavilla principe di Taranto, da sua moglie Costanza di Francia e dal loro figlio Boemondo d’Antiochia. Come dettagliatamente raccontano Rosario Quaranta e Silvano Trevisani nel loro “Grottaglie – vicende, arte, attività della città della ceramica”, questi atti furono confermati da Ruggero II di Sicilia, conosciuto anche come “Ruggero il normanno” con un privilegio del 1133, in cui si ribadiva il diritto di obbedienza dei suffraganei in beneficio della curia di Taranto, allora guidata dall’arcivescovo Rosemanno. Altri privilegio fu quello concesso nel 1196 all’arcivescovo di Taranto dall’imperatore Enrico VI° di Hohenstaufen, detto il Severo o il Crudele, figlio di Federico Barbarossa e padre del più famoso Federico II° di Svevia. In questo documento l’imperatore conferma i diritti già concessi alla curia arcivescovile e omologa la donazione di Grottaglie ed altri luoghi adiacenti, già effettuata da Giovanna, regina di Sicilia, figlia di Enrico II re d'Inghilterra e moglie di Guglielmo II. Ancora, abbiamo il privilegio concesso nel maggio 1108 dal già citato Boemondo I° d'Altavilla e da sua moglie Costanza di Francia, in cui – considerate le tristi condizioni economiche dei cittadini grottagliesi e le angherie da loro subite a causa del rigido governo degli antenati dei regnanti, questi concessero uno sconto sulle imposte da versare, tale per cui i grottagliesi erano tenuti a versare nelle casse dell’erario non più la decima parte dei frutti del loro lavoro, ma solo la ventesima. Diritti e prepotenze Altri documenti vanno nella stessa direzione di quelli citati, ma offrono altresì il fianco agli stessi dubbi: le interpretazioni non sono univoche e si prestano a fraintendimenti più o meno capziosi, e – ancor peggio – la loro autenticità non è provata oltre ogni ragionevole dubbio. D’altro canto – come afferma il Blandamura citato nel volume curato da Quaranta e Trevisani - questi documenti confermerebbero che all’epoca – ovvero nell’XI° secolo – Grottaglie era una città importante e forte di una economia fiorente. Altro dato di fatto che emerge è che l’insediamento di Casalgrande si è oramai imposto sugli altri, inglobandone la popolazione e costituendo il nucleo urbano che, di lì a poco, verrà munito di mura difensive, di un castello e della collegiata dedicata a Maria SS. Assunta, ma soprattutto si evidenzia il legame sempre più stretto con la curia arcivescovile tarantina, che tanto peso avrà sulla storia sociale, politica ed economica di Grottaglie. Avvenne così che alla fine del XII° secolo al governo religioso degli arcivescovi di Taranto si affiancò anche il potere derivante dalla giurisdizione civile e criminale, tanto da consentire al capo della provincia ecclesiastica tarantina di godere dei diritti feudali, fregiandosi del titolo di barone di Grottaglie. Si tratterà di un potere esercitato per secoli e quasi mai in maniera pacifica e in accordo con la popolazione; vi saranno lotte e processi, liti e rivolte, atti di ribellione, scomuniche e atti di contrizione, uno dei quali eternato con una maestosa tela raffigurante il tema della Annunciazione ed esposta all’interno della chiesa madre. Tanti furono quindi gli arcivescovi-baroni che esercitarono la loro azione su Grottaglie, alcuni – come Bernardo o Gregorio – interposero i loro buoni uffici per alleviare i disagi della popolazione, altri furono assai meno magnanimi e altri ancora – come Giacomo d’Atri – eternarono la loro memoria con opere che ancora oggi sfidano i secoli. Ma di questo, e tanto altro, parleremo in un prossimo appuntamento!
Grottaglie, storia e territorio: la “Questione Quinto Ennio”
05-09-2023
Grottaglie, storia e territorio: la “Questione Quinto Ennio”
Quinto Ennio è stato un poeta, drammaturgo e scrittore romano che viene considerato, fin dall'antichità, il padre della letteratura latina, poiché fu il primo poeta ad usare la lingua latina come lingua letteraria in competizione con quella greca.Alla sua grande fama corrispondono notizie biografiche abbastanza dettagliate ma poche opere originali, di cui ci sono giunti titoli ed alcuni frammenti.Quinto Ennio nacque nel 239 a.C. a Rudiae, una città salentina non ancora individuata con certezza, situata in un territorio cui allora convivevano tre culture: quella greca che aveva come centro maggiore Taranto, quella osca dei centri minori indigeni italici, e quella dell'occupante romano: Aulo Gellio testimonia infatti che Ennio, pur vantandosi di discendere da Messapo (eroe eponimo della Messapia e dei Messapi), era solito dire di possedere "tre cuori" (tria corda), poiché sapeva parlare in greco, in latino e in osco, una lingua parlata da un insieme alquanto eterogeneo di popoli italici che aveva un'area di diffusione, in epoca preromana, compresa in una larga parte dell'Italia meridionale, spaziando dal Sannio, alla Campania antica, alla Lucania, all'Apulia e nel Bruzio, fin nelle Serre calabresi.Tornando al nostro Quinto Ennio, sappiamo che durante la seconda guerra punica militò in Sardegna e nel 204 a.C. vi conobbe Catone il Censore, che lo portò con sé a Roma. Qui ottenne la protezione di illustri uomini politici quali Scipione l'Africano e, poco tempo dopo, entrò in contatto con altri aristocratici del circolo degli Scipioni, filoelleni, come Marco Fulvio Nobiliore. Queste amicizie lo posero in conflitto con Catone, diffidente nei confronti delle altre culture e di quella greca in particolare.Nel 189 a.C. Marco Fulvio Nobiliore, nella guerra contro la Lega etolica, condusse con sé Ennio come poeta al seguito, con il compito cioè di celebrare le gesta del generale. Cinque anni dopo Quinto Fulvio Nobiliore, figlio di Marco, gli assegnò dei terreni presso la colonia da lui dedotta a Pesaro e gli fece conferire la cittadinanza romana. Riconoscente, Ennio espresse orgogliosamente questa concessione:“Sono cittadino di Roma, io che un tempo fui cittadino di Rudiae”.Sofferente di gotta, Ennio morì a Roma nel 169 a.C. Per i suoi meriti, oltre che per l'amicizia personale, fu sepolto nella tomba degli Scipioni, sull'antica Via Appia, dove fu raffigurato da un busto su cui era inciso un epitaffio in distici elegiaci che Cicerone credeva composto dallo stesso Ennio e che così recita:“Ecco, o cittadini, i tratti dell'effigie del vecchio Ennio:costui le massime gesta cantò dei vostri padri.Nessuno di lacrime mi onori, né la mia mortepianga. Perché? Volo vivo tra le bocche degli uomini” Ennio sperimentò numerosi generi letterari, molti dei quali a Roma erano poco conosciuti o del tutto sconosciuti, pertanto è stato definito il vero padre della letteratura latina. Della maggior parte di queste sue opere rimangono però – come detto - solo pochi frammenti e titoli.L'opera forse più famosa sono gli Annales, che furono il poema nazionale del popolo romano prima che fosse composta l'Eneide. In questa monumentale opera Ennio narra la storia di Roma anno per anno, come spiega lo stesso titolo, dalle origini sino al 171, sino a poco prima della morte del poeta, dunque, avvenuta nel 169 a.C., e si ispira al modello greco, come farà poi Virgilio.L'opera era strutturata in 18 libri, suddivisi in tre esadi, cioè in tre gruppi di sei libri, ma rimangono solo 600 versi dei circa 30 000 originali. La narrazione della storia di Roma aveva inizio dalla caduta di Troia e dall’arrivo nel Lazio di Enea e viene condotta attraverso uno stile elevato e solenne ricorrendo spesso ad arcaismi. Ennio punta molto sulle figure di suono e specialmente sull’allitterazione per accentuare il pathos ed in alcuni frammenti desunti da episodi di guerra si nota un certo gusto del macabro. Poiché i frammenti a noi pervenuti sono pochi e giunti per tradizione indiretta, non siamo capaci di valutare la struttura compositiva del poema maggiore e le tecniche della narrazione, ma emergono con sufficiente chiarezza le caratteristiche della lingua e lo stile elevato e solenne, che appaiono frutto di un geniale contemperamento di tratti tipicamente latini e audaci innovazioni grecizzanti.Ricorre spesso ad arcaismi internazionali, tratti distintivi di derivazione omerica (tanto che si presenta nel proemio come Omero redivivo, e Orazio stesso lo definisce alter Homerus, "altro Omero"). Infatti fu ritenuto uno dei principali fautori dell'ellenizzazione; nonostante Catone fosse uno degli scrittori più attaccati alla cultura romana, riconobbe e apprezzò in Ennio le doti intellettuali. Sappiamo che Ennio nacque in una città chiamata Rudiae, quello che ancora oggi non si sa con certezza è dove esattamente questa fosse situata. Strabone ne riferisce la posizione sulla via di terra tra i porti di Hydrus (Hydruntum, o Otranto) e Brentesium (Brundusium o Brindisi). Plinio il Vecchio, la elenca prima di Gnatia nella descrizione del territorio dei Pediculi (ager Pediculorum), confinante con Brindisi. Pomponio Mela, enumerando le città pugliesi, la cita, dopo Bari e Egnazia (Gnatia) e prima di Brindisi, come "nobile" per avuto Ennio come cittadino. Tolomeo cita Rudiae tra le città dei salentini dell'interno.Ovidio in un verso della Ars Amatoria cita Ennio come "nato sui monti calabri". Silio Italico, parlando di Ennio lo dice discendente del re Messapo ("antiqua Messapi ab origine regis") e nato nell'antica Rudiae, ai suoi tempi memorabile solo per il nome del suo celebre figlio ("hispida tellus miserunt Calabri: Rudiae genuere uetustae, nunc Rudiae solo memorabile nomen alumno"). Ad oggi le ipotesi più accreditate sono quella Taranto-Brindisina, quella Leccese e quella adriatica A supporto della prima abbiamo diverse fonti: nel 1590 in una carta geografica del Salento opera del cartografo fiammingo Gerard Kremer (e firmata per Gerardum Mercatorem) l'antica Rudiae era indicata tra Villa Castelli e Grottaglie, all'incirca in quella che oggi è conosciuta come “Pezza Petrosa”, presso cui è possibile visitare il sito archeologico da cui sono stati tratti numerosi reperti, alcuni dei quali esposti nel museo allestito presso la casa comunale di Villa Castelli. Uno studio pubblicato nel 1819 collocava Rudiae nell'ambito dell'antica diocesi di Uria (attuale Oria in provincia di Brindisi) e sulle propaggini delle Murge, identificate con i "monti calabri" citati da Ovidio. Negli anni trenta del Novecento, Francesco Ribezzo ipotizzava Rudiae collocata nel territorio del comune di Francavilla Fontana, mentre Ciro Cafforio nello stesso periodo, ne proponeva la collocazione a poca distanza, al confine tra la provincia di Taranto e la provincia di Brindisi, presso la già citata località di Pezza Petrosa nel comune Villa Castelli, ipotesi rinnovata negli ultimi anni da P. Scialpi ne “I Mirmidoni e Villa Castelli” del 2003 e nuovamente ne “Il parco archeologico di Pezza Petrosa a Villa Castelli” del 2011. Secondo uno studio degli anni quaranta, il toponimo Rudiae sarebbe derivato dalla parola greco-dorica Phrouron, con il significato di "avamposto militare", e durante il periodo di colonizzazione greca del Salento sarebbero state fondati diversi insediamenti con questo nome, che avrebbero avuto come capitale Taranto; secondo tale ipotesi potrebbero essere esistite più città chiamate Rudiae. Negli anni sessanta Rudiae fu ancora identificata con Ceglie Messapica, che di solito è considerata piuttosto essere la città di Caelium, e negli anni settanta presso Grottaglie, come riportato da Silvia De Vitis in “Archeologia Medioevale a Grottaglie. La lama dei Pensieri” e da Arcangelo Fornaro in “Ricerche archeologiche nella gravina di Grottaglie”. L'ipotesi adriatica trae fondamento da alcune ricerche del XIX secolo che situano Rudiae sulla parte orientale della Puglia: nel 1851 il numismatico Vincenzo Andriani la ipotizzava nel territorio di Carovigno, mentre nel 1884 fu proposta una collocazione a pochi metri dalla cinta muraria medievale della città di Ostuni. Si è anche ipotizzata la collocazione di Rudiae presso un altro sito archeologico nel territorio di Cisternino in Valle d'Itria, che viene di solito considerata coincidere con l'antica città romana di Sturnium. L'ipotesi leccese identifica Rudiae con i resti archeologici rinvenuti nella prima periferia di Lecce, a circa 3 chilometri dal centro abitato, in direzione sud-ovest. Una menzione di Rudiae come collocata presso Lupiae, l'antica Lecce si ha in un resoconto di epoca normanna, mentre successivamente, nel XVI secolo, l'umanista Antonio De Ferrariis detto il Galateo avanzò per primo l'ipotesi di identificare la patria di Ennio con la località di Rusce, ipotesi poi accettata dallo storico ed epigrafista Theodor Mommsen. I materiali rinvenuti ne attestano la frequentazione già a partire dal IX-VIII secolo a.C. e la nascita di un insediamento di una certa importanza tra la fine del VI e il III secolo a.C. Successivamente la città perse di importanza e già nel I secolo d.C. - secondo la testimonianza di Silio Italico - era ridotta a un modesto villaggio, in coincidenza del progressivo affermarsi di Lupiae, che proprio in quel periodo (tra I e II secolo) si dotava di un anfiteatro e di un teatro.